venerdì 24 maggio 2019



L’“invito alla lettura” . 

Un messaggio idiota.


Ho partecipato ad una riunione per la realizzazione di un festival dedicato al racconto per ragazzi. Sono rimasto in silenzio ad ascoltare chi aveva avanzato la proposta e l’aveva già in parte elaborata.

Non è passato molto tempo dall’inizio della riunione che è emersa ben presto l’idea di lanciare un “Invito alla lettura”, uno dei concetti più inflazionati che io conosca. Se si mette la frase su Google ci si può rendere conto di quanto venga utilizzata.

La signora che parlava con tanto entusiasmo era una donna di mezza età, forse un’impiegata della biblioteca comunale o comunque di un qualche ufficio del Comune dedicato alla cultura. Immancabile l’occhiale quadrato sulla punta del naso. Un po’ cicciottella.

“Dovrebbe muoversi di più” mi è venuto in mente.

Se dovessi convincerla a farlo, per esempio invitandola a fare un po’ di corsa ogni tanto come faccio io da sempre, come potrei dirglielo?

“Signora! Vuole venire a correre insieme a me? Le dirò in cosa consiste. 
Quando inizierà a correre incomincerà a sentire fatica. Talvolta accade, soprattutto in salita, che potrebbe andare in debito di ossigeno, avere il fiato grosso e subire una sorta di sensazione di soffocamento. Non soffocherà, sia chiaro! Le basterà fermarsi e riprendere fiato. A volte si sente un dolore acuto sui muscoli delle gambe. Una sorta di bruciore che diventa sempre più intenso. E poi si suda. La maglia si appiccica alla pelle e le dà una sensazione di bagnato addosso con qualche brivido di freddo. In quel caso non bisogna mai fermarsi, ci si potrebbe ammalare!”


Non so cosa ne pensiate ma io dubito che con questo tipo di invito riuscirei a convincerla. Credo piuttosto che, se non ha mai corso fino ad ora, le ho dato un bel po’ di motivi per continuare a non farlo.

Proviamo un secondo tipo.

“Signora! Vuole venire a correre insieme a me? Le dirò in cosa consiste. 
Non appena lei uscirà di casa con la sua comoda tuta e le scarpe da ginnastica proverà la bellissima sensazione di trovarsi all’aria aperta e di avere spazi enormi intorno. Il corpo, che è stato fermo tutto il giorno, si riattiva. Il sangue incomincia a circolare e lei sentirà da subito una chiara sensazione di vitalità. Si purificherà perché sudando eliminerà tossine. Inoltre, dopo un po’ di volte, non sentirà più la fatica nel salire le scale o nel doversi muovere a piedi. Il suo corpo le darà sempre una sensazione di vigore e di buona salute. Avvertirà di rado la stanchezza e dimagrirà. Questo le genererà un costante benessere.”


Continuo a dubitare di riuscire a convincerla, ma di certo questo secondo tipo di messaggio è molto più efficace del primo. Fermo restando che sia il primo che il secondo dicono cose vere e non mentono su niente riguardo alla corsa.

Il punto è che l’“invito alla lettura”, che viene soprattutto rivolto ai ragazzi, è esattamente un invito del primo tipo. Ovvero non ti racconta i vantaggi di un’azione, ma la sua parte più impegnativa e pesante.

I libri sono fatti di decine di pagine. Le pagine di centinaia di righe. Le righe di migliaia di parole. Il loro aspetto non è affatto attraente come si vuol far credere. Al primo impatto appaiono monotoni. L’atto del leggere inoltre presuppone di rimanere immobili, assorti e concentrati. Inutile negarlo. Leggere è fatica.

Non è il leggere che dà un vantaggio. Ma tutti i concetti che dalla lettura vengono acquisiti, le emozioni che si ricevono, gli insegnamenti che si traggono.

L’ “invito alla lettura”, da un punto di vista comunicativo, è convincente quanto un dentista che, nel volersi fare pubblicità, non parla dei benefici di togliere una carie, ma del dolore del trapano durante la cura.

L’ “invito alla lettura”, di per sé, non significa niente. Dire ai ragazzi, o a chiunque altro, “Leggete! Leggete!”, (o peggio ancora “Dovete leggere!”) cosa che sento fare da sempre, è semplicemente un messaggio idiota.

“Leggete” sì, ma cosa? Così detto sembra che il solo atto del leggere sia qualcosa di benefico. La selezione dei contenuti, che è un processo complesso che richiede una ricerca lunga e ragionata, sembra una cosa secondaria. È come dire: “mettetevi in cammino, non importa dove andate.”

La lettura sembra essere proposta come fine ultimo. L’accrescimento culturale, di cui la lettura è solo un mezzo (e non è nemmeno l’unico andrebbe aggiunto), un effetto secondario di scarsa importanza che non merita menzione.

La verità è che l’ “invito alla lettura” non è affatto un messaggio genuino. Ha origine da quel mondo strisciante e distorto della dottrina dell’ordine civile e morale che vuol far credere che è buono tutto ciò che fa male. Come lavorare, reprimere gli istinti sessuali, mangiare scondito, umiliarsi ogni tanto.

Il messaggio che andrebbe formulato è ben altro. E purtroppo non si liquida con una frase secca.

Bisognerebbe spiegare ai ragazzi, ma non solo a quelli visto che le categorie bisognose sono di ogni età, che i problemi che sicuramente la vita gli pone, che riguardano i rapporti personali e affettivi, la gestione dei propri sentimenti, il rapporto con se stessi, il giusto senso da dare alle cose e molto altro ancora, non compaiono nelle loro esistenze per la prima volta nella storia. E che quei problemi sono stati affrontati e sviscerati da menti elette che ci sono state in ogni periodo. La risposta a quei problemi pertanto è già patrimonio di conoscenza dell’umanità. Il modo più efficace di affrontarli è accedere a quella conoscenza.

Il libro e la lettura sono solo un mezzo attraverso cui … purtroppo … bisogna passare.
Andrebbe aggiunto che la lettura e la conseguente crescita culturale hanno come scopo la vita. Se la crescita culturale, o peggio ancora la lettura, diventano l’unico mondo in cui ti ritrovi a vivere, è bene che incominci a pensare che ci sia qualcosa che non va.

Perché, se proprio dobbiamo farlo un invito, deve essere un invito a vivere. Casomai si dica che si deve leggere per vivere, e non che si deve vivere per leggere.

Chi crede di fare una cosa buona lanciando un messaggio di “invito alla lettura” ha una visione molto superficiale delle cose e non ha ancora capito niente del mondo.

Dovrebbe leggere di più.
                                              Alberto Melari

lunedì 13 maggio 2019



La paura

I demoni esistono veramente.


Quando nella vita succede qualcosa, questo genera in noi una reazione emotiva.
Da un punto di vista logico questo concetto sembra non fare una piega. È perfettamente coerente con il principio di causa-effetto (o principio di causalità).

E se invece così non fosse? E se avvenisse regolarmente il contrario ma noi non siamo in grado di accorgercene?

Il contrario consisterebbe nel fatto che una nostra reazione emotiva, ad esempio una paura, faccia accadere qualcosa nella nostra vita.

Questa idea sembra assurda. Invece è proprio questo quello che realmente accade! E non ogni tanto. Ma sempre. Ed ogni volta ci appare come se avvenisse l’inverso.
Non c’è miglior modo di spiegare questa teoria che non sia di dimostrarla con degli esempi. Di seguito tre.

Primo - Il dipendente ed il titolare.

I protagonisti sono due persone che chiameremo A e B. Hanno due ruoli differenti nella storia, in relazione fra loro. 
A è uno dei dipendenti di un’attività di cui B è il titolare. A non è un dipendente qualsiasi. In qualche modo gestisce un po’ tutta l’attività, organizza il lavoro e dirige gli altri dipendenti. B ha molta stima di lui e si fida. Anche A ha stima del suo capo B. Lo ammira. Lo considera come un maestro per certi versi. 
Il clima è sereno.

A, ogni tanto, trova del lavoro all’esterno dell’attività. B è d’accordo su questo perché sa che l’attività non garantisce di per sé grossi guadagni, e quindi è felice che A possa avere guadagni esterni che lo rendano più tranquillo economicamente. Anche perché questo gli garantisce che A non abbandoni l’attività per cercare qualcosa di più sicuro. Anzi, B a volte mette volentieri a disposizione di A le attrezzature dell’azienda per lo svolgimento di questi lavori esterni.

Insomma c’è una situazione di equilibrio, con ruoli ben precisi e riconosciuti e rapporti umani ottimali.

Ad un certo punto però in B comincia a maturare una paura. Il timore che A possa svincolarsi e abbandonare l’attività per proseguire in proprio. Questo scenario lo ossessiona. In primo luogo perché perderebbe A, il suo dipendente migliore. Poi perché si troverebbe un concorrente in più. Ma soprattutto perché sentirebbe minacciato il suo ruolo di capo a cui tiene molto e l’idea che qualcuno possa eguagliarlo lo disturba.

In realtà A non ha mai fatto questo tipo di pensiero. Non si è mai visto nel ruolo di titolare di un’attività. Lo sente inadatto alla sua personalità ed ha troppa stima di B per pensare di poterlo emulare.

Un giorno A si procura un po’ di lavoro all’esterno e prende accordi con qualcuno per assicurarsi il solito piccolo guadagno extra. Come altre volte chiede a B di avere in prestito l’attrezzatura per svolgere il lavoro.

B, in preda già da tempo a quella preoccupazione, questa volta inventa una scusa e nega l’utilizzo dell’attrezzatura che fino ad allora aveva sempre prestato con generosità.

Naturalmente A rimane spiazzato. È costretto a rinunciare al lavoro ma per farlo deve venire meno ad un impegno preso. In più deve rinunciare al guadagno extra, indispensabile per un equilibrio economico che gli consenta di continuare a lavorare nell’attività di B. Deve trovare una soluzione.
Ci pensa un po’ su poi sceglie di fare un azzardo. Decide di acquistare delle attrezzature tutte sue. Naturalmente si indebita per farlo. Però questo gli permette di svolgere il lavoro e salvare la faccia con i clienti.

Una volta svolto il lavoro però accade che si ritrova il debito aperto e si rende conto che ha ben poca scelta. Deve staccarsi da B e aprire un’attività in proprio che gli consenta di ammortizzare le spese fatte e dare un senso a quell’investimento.

Questa vicenda è complessa e intrecciata, ma è un chiaro esempio di come una paura, cioè il timore di B che A si possa staccare da lui, abbia generato esattamente la condizione che era temuta.

Naturalmente B non si è accorto di essere stato lui a causare la situazione di cui aveva timore. Darà la colpa ad A di aver tradito la sua fiducia. Ma non solo. Ed è questo il punto principale. Dirà a sé stesso che tutte le sue preoccupazioni erano fondate. E che faceva bene a temere che A si staccasse da lui. In qualche modo crede che stava effettivamente vedendoci lungo e che la sua paura aveva una base reale.

Secondo - Il marito geloso.

Una volta analizzato un caso complesso come quello sopracitato, vediamone uno più semplice e di migliore intuito.

Questa volta abbiamo marito e moglie, con lui che è il classico marito geloso. Naturalmente la paura di un marito geloso è che la moglie possa andare con un altro uomo. La moglie, dal canto suo, non ha nessuna intenzione di farlo. Ma questo non cambia niente nella preoccupazione del marito, il quale inizia a controllarla, a chiamarla al telefono per chiederle con chi sta, a farle domande in maniera pressante. Questo atteggiamento naturalmente rende il rapporto molto pesante per la moglie. La moglie, che in un primo momento sopporta, col tempo incomincia a stancarsi e il sentimento d’amore e la stima che provava per il marito si attenuano sempre di più.

Ad un certo punto la moglie si rende conto di non sopportare più quel controllo ossessivo e questo la porta a disinnamorarsi completamente del marito. Ed è a questo punto che incomincia a guardarsi intorno, fin quando non inizia a provare attrazione per un altro uomo. Alla fine ci si incontra e inizia una relazione clandestina con lui.

Il marito, che aveva paura del tradimento, ha ottenuto esattamente quello che temeva. Anche qui, il marito, una volta scoperta la relazione segreta, passerà il tempo a dirsi che aveva ragione ad avere dei sospetti sulla fedeltà della moglie.

Terzo - Lo studente all’esame.

Uno studente deve sostenere un esame. Ha molta paura di non superare la prova. Ha studiato, ma continua a temere di cadere su una domanda non prevista o che l’esaminatore colga un qualche punto debole della sua preparazione.

Una volta davanti alla commissione, già prima che gli venga fatta una domanda, scatta in lui una sorta di agitazione, una tensione da esame maturata in giorni e giorni di preoccupazione che non gli fa ricordare niente. La voce si blocca e non riesce a parlare. Si crea un vuoto di memoria e lì per lì per la tensione non riesce a collegare i concetti. Il risultato è una prestazione pessima. Verrà bocciato.

La paura di essere bocciato ha dato ragione a se stessa.

Inutile dire che gli esempi a disposizione sarebbero molti di più. E tutti finirebbero per darci un’unica verità.

I demoni esistono.

Sono le paure. Entrano nelle persone. Le possiedono. Vivono della loro energia facendo in modo che la loro mente non pensi ad altro. Una volta posseduta una vittima, il demone (la paura) la fa muovere in maniera tale che questa crei una realtà in cui le condizioni della paura stessa si realizzino e molto spesso ci riesce. In questo modo la vittima si convincerà della fondatezza di quella paura e continuerà ad ospitarla e non si accorgerà che è stata proprio lei a renderla reale. Così il demone potrà continuare a possederla e assicura la propria sopravvivenza all’interno di lei.

Quando parlate con qualcuno che è in preda ad una paura, non state parlando con lui. State parlando con il demone. È importante saperlo. 
Buona conversazione. 


                                                                                                                      Alberto Melari