“L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte” è un
concetto espresso dal critico Dino Formaggio.
Senza dubbio questa frase rappresenta l’idea fondante di quel
fenomeno che passa sotto il nome di “arte contemporanea”.
“Arte contemporanea” è un nome ingannevole e inutile allo
stesso tempo, esattamente come il fenomeno che intende indicare.
È inutile perché tutta l’arte è contemporanea al tempo in cui
è stata prodotta.
L’arte del 1400 ad esempio è contemporanea di chi nel 1400 è vissuto.
È ingannevole perché indica non l’arte che si produce in
questo periodo, ma solo una sua specifica espressione.
Ma chiamandola “contemporanea” quell’espressione pretende di
essere l’unica forma di arte presente in questo periodo.
Cioè ci dà l’idea che gli artisti oggi facciano solamente
quella roba lì, e che nessuno si interessi più o senta l’esigenza di dipingere,
lavorare sulla forma, creare qualcosa di esteticamente apprezzabile, come vuole
la tradizione.
Il che sappiamo benissimo che non è affatto vero.
Ma torniamo alla frase
“L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte”.
È un concetto questo che molte persone hanno fatto proprio
nella necessità di adeguarsi al proprio tempo e di non trovarsi nel disagio di
sentirsi antiquati, poco aperti, mal giudicati ed emarginati da chi vive intorno.
Ma fare proprio questo concetto comporta anche di
appropriarsi, senza accorgersi di farlo, di tutti i presupposti che questo
implica.
E questi sono abbastanza “bastardi”.
Dire che “L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte”
vuol dire, per esempio, accettare il presupposto che l’arte sia totalmente
inutile.
Non vi resta immediato il collegamento? Eppure è semplice.
Se crediamo che l’arte abbia un’utilità, una finalità, allora
non potremmo mai dire che “è arte tutto ciò che gli uomini chiamano arte”, ma dovremmo
invece dire che “è arte tutto ciò che raggiunge quella finalità”.
Ma non solo. Diremmo inoltre che più la raggiunge, più quell’arte
ha una sua validità.
E questo ci porta necessariamente ad ammettere che in arte esista
una scala di valori che rende le opere più o meno valide.
Invece, se è arte “tutto ciò che gli uomini chiamano arte”,
allora l’arte è un concetto arbitrario e questo esclude qualsiasi finalità. Qualsiasi
utilità.
E non esiste nessun criterio di valore perché questo
principio mette pietosamente tutto su uno stesso piano poiché basta che io
chiamo arte qualcosa e questo lo diventa.
Che è esattamente ciò che avviene con l’arte contemporanea.
Un individuo che fa proprio questo principio fa propria anche
l’idea che l’arte sia inutile e si avvicina all’arte senza aspettative.
Senza concentrarsi in alcun modo sul valore evolutivo che l’arte ha. E non lo
vede.
Frequenterà l’arte in maniera totalmente distratta,
assolutamente non focalizzata su quello che questa può produrre in lui in
termini di crescita personale.
Una mente così sterilizzata perde la facoltà di distinguere
ciò che è artisticamente valido da ciò che non lo è.
Quindi, agli individui che hanno abboccato a concetti di
questo tipo viene sottratto un grande strumento di crescita evolutiva,
per entrare in un processo di progressivo istupidimento.
Quello strumento invece, in passato, aveva un riconoscimento
enorme.
Infatti quelle generazioni hanno investito grandi risorse per
produrre opere talvolta di una sontuosità e magnificenza irripetibili quando
non era puoi nemmeno così facile concepirle.
Ed averle o non averle quelle opere, nella cultura del
proprio popolo, nella storia della propria civiltà, nella propria formazione
personale, la differenza la fa. Eccome!
Concetti come quelli che “L’arte è tutto ciò che gli uomini
chiamano arte” invece demoliscono ogni cosa, appiattiscono tutto, istupidiscono
i singoli individui che li accettano e di conseguenza le masse intere.
Quindi un grande grazie a Dino Formaggio che c’ha lasciato
questo magnifico principio e buon istupidimento a tutti quelli disposti a farlo
proprio.
“Il segreto dell’esistenza
umana non sta soltanto nel vivere,
ma anche nel sapere per che cosa si vive!”
Fëdor Dostoevskij
Qual è la missione della tua vita?
Ma prima di tutto, esiste una missione della propria
vita?
… e … cosa si intende per “missione della propria vita”?
Questo concetto, ammesso che esista, non può certo
essere indagato in maniera razionale, scientifica.
Neppure la psicologia classica è uno strumento giusto per trattare di questo.
Diciamo che, la missione della propria vita, se
esiste, appartiene a quel genere di verità, negate dalla maggior parte delle
persone, che si possono solo intravedere e si fanno cogliere solamente da chi è
più attento e disponibile ad un pensiero aperto.
Una serie di osservazioni delle proprie o altrui
esperienze possono portare a pensare che una missione nella vita potrebbe esserci.
Cioè un qualcosa di ben preciso che la vita ci chiede di fare.
Uno scopo finale per cui siamo venuti al mondo.
Se ciascuno di noi dovesse avere una missione nella
propria vita, allora diventa fondamentale scoprire quale è.
Perché è probabile che la vita possa procedere bene, possa avere un senso, solo
quando effettivamente si sta portando avanti quella missione.
La maggioranza delle persone però pensa che la propria
missione di vita non si sia mai manifestata perché nelle loro vite hanno avuto
un ruolo determinante certi elementi di disturbo.
Ad esempio: disagi dovuti alla mancanza di denaro. Oppure
si viene assorbiti da problemi di relazioni sentimentali, quando non si è mai
trovato un equilibrio nei rapporti affettivi. Incapacità a mantenere le amicizie
quando non si sanno gestire i rapporti interpersonali.
Paure di ogni tipo.
Molti non hanno potuto scoprire quale fosse la propria
missione perché eclissata da qualcuno di questi problemi che hanno preso il
sopravvento su tutto il resto.
Questi problemi non permetterebbero di concentrarsi su
ciò che la vita vuole da noi.
Attenzione! Quell’entità, che si frappone fra te e la
tua missione di vita, non è un disturbo secondario.
Quella è la tua missione di vita.
Ed è per questo che te la trovi davanti ogni volta.
E ogni volta ti distrae da qualcosa che stai provando a fare.
Lo so… non è una bella notizia di cui venire a conoscenza.
Avresti preferito che la missione della tua vita fosse
contribuire al progresso della civiltà, scoprire qualcosa di importante, salvare
vite, lasciare un patrimonio artistico di eccellenza, consegnare alla storia
qualcosa di rilevante … fosse stata una di queste avresti volentieri speso il
tuo tempo, le tue energie e anche i tuoi soldi per portarla avanti.
Invece devi solo risolvere un problema che molte delle
persone che conosci non hanno neppure mai avuto
e quindi faticano anche solo a concepire che tu ce l’abbia.
Eppure è così.
Ora, se non hai ancora chiuso con sdegno questo video,
possiamo fare altre considerazioni a riguardo.
Cosa accade, per esempio, se quel problema nella vita viene
risolto?
Cosa accade se viene assolta una volta per sempre la missione?
La vita smette di avere senso senza una missione?
Niente di tutto questo.
Intanto va detto che prima che quel problema venga
risolto, cioè che si assolva alla missione, c’è un tempo in cui il problema non
viene nemmeno riconosciuto. Viene negato.
Non è proprio che venga negato quando si presenta, ma
viene trattato come un incidete casuale qualunque
non viene cioè riconosciuto come il problema della propria vita.
E quindi non lo si affronta direttamente, si aspetta
che il disagio che ha generato passi, un po’ come passa prima o poi un dolore
muscolare.
Solo dopo molte volte in cui quel problema si è ripresentato,
ed in genere ogni volta in maniera più dolorosa e sfacciata, si arriva a
riconoscerlo come proprio.
E perché questo avvenga in genere passano anni.
Talvolta decenni.
Anche dopo che sarà diventato chiaro che quel problema
si presenta a noi ripetutamente, sempre uguale, sempre nostro, passerà ancora
altro tempo in cui verrà lasciato agire, in quanto attribuito a circostanze
esterne che si vengono a creare ogni volta come una maledizione contro di noi.
Ma più spesso la colpa viene data ad altri, famigliari
o conoscenti, considerati responsabili di azioni che generano quel problema
nella nostra vita.
Già … ma come si risolve quel problema?
Come si assolve alla missione della propria vita?
Ogni problema sembra essere una cosa a sé.
È molto diverso infatti avere problemi di denaro
dall’avere problemi di relazione dall’avere problemi di altro tipo ancora.
Eppure la soluzione ha sempre un unico schema.
Occorre ammettere con se stessi che quel problema è
dentro di noi.
Che, anche se tutto ci appare ogni volta frutto di congiunture esterne sulle
quali non avremmo potuto fare nulla, siamo noi, in maniera molto indiretta,
sottile e perversa ad aver creato le circostanze che ci hanno fatto ricadere in
quelle situazioni.
In altre parole, occorre assumersi la completa
responsabilità di quanto ci accade, senza dare colpe a nessuno.
E questo deve essere accolto come verità assoluta,
non riconoscerlo senza esserne effettivamente convinti.
Raggiungere questo livello di consapevolezza
corrisponde a compiere un passo evolutivo enorme per la propria vita.
Una volta raggiunta questa consapevolezza, verrà
naturale avere il desiderio di voler sorprendere noi stessi in futuro mentre
mettiamo in atto quei meccanismi che tante volte ci hanno incastrato in situazioni
spiacevoli.
Per capirli finalmente, riconoscerli mentre agiscono e
combatterli.
Ma questo probabilmente non accadrà.
Perché il semplice raggiungimento della consapevolezza di avere noi la
responsabilità delle nostre stesse avversità, è già di norma sufficiente a
portarcene fuori.
Anche se ci vorrà molto tempo affinché la vita ci darà
dei segni concreti che questo è avvenuto.
Ad ogni modo la missione è stata assolta.
A questo punto? Cosa dobbiamo fare della vita?
Sicuramente ci godiamo quello stato di evoluzione
raggiunto.
Abbiamo una nuova visione del mondo.
Tanta energia rimasta intrappolata per anni in problemi ricorrenti si è
liberata ed è a nostra disposizione.
Ma la vita non permetterà mai che ci annoiamo.
Infatti è probabile che una qualche altra missione si
presenti davanti a noi.
Purtroppo sempre sotto forma di problema da risolvere.
Un altro problema, sotteso, silente, che nel passato
si era già presentato, anche se in maniera lieve, adesso sembra accrescersi, lievitare.
Si manifesta come non aveva mai fatto prima.
E tutto ricomincia da capo.
Ora, sta a noi voler capire o meno il funzionamento di
questo meccanismo.
Il senso della “missione da compiere”.
Possiamo scegliere di entrare nel lamento di chi si
deve rassegnare a non essere mai sereno e tranquillo, mai degno di un autentico
stato di pace, oppure capire che quei problemi sono lì, disposti in fila come i
vagoni di un treno.
Uno dietro l’altro stanno chiedendo di essere risolti.
Ogni volta meno severi però, perché il modo in cui si
sono disposti è senz’altro in un ordine decrescente.
Dal più grave, più urgente, al più semplice da sciogliere.
E tutti hanno la stessa soluzione.
Occorre assumersi la responsabilità della loro presenza.
Sapere che siamo noi a generarli e ignorare ogni convinzione che tutto invece
avviene all’esterno e che noi non possiamo farci niente,
anche se appare come la cosa più evidente.
È questo il segreto per assolvere alla missione.
Solo dopo aver smontato uno per uno tutti i vagoni di
quel treno, ai pochissimi che in una vita avranno il coraggio di farlo,
l’esistenza rivelerà finalmente quale è la missione grandiosa per la quale si
sta vivendo.
Quella per cui varrà la pena spendersi, essere
strumento, servire e risplendere.
È fondamentale per un artista difendere il suo patrimonio
più importante. La propria creatività.
Per farlo è indispensabile tutelare la propria autonomia di
pensiero, il proprio mondo interiore.
Molti dei comportamenti più comuni fra chi produce arte, invece,
vanno proprio a toccare quell’autonomia.
Sono le cose che un artista non dovrebbe mai fare.
Affidarsi ad un
critico
Se un satellite si mette a girare intorno ad una stella, si
illumina.
È questo il principio che porta molti artisti a darsi un
gran da fare per farsi notare ed entrare nelle grazie di un qualche intellettuale
ben inserito.
Qualcuno che scriva articoli su di loro o che li citi per
lodarne le opere.
Quando nasce un rapporto di questo tipo, la posizione
dell’artista è quasi sempre di subordinazione.
E questo è estremamente deleterio (alla persona in quanto tale prima ancora che
all’artista).
Come ho già detto in un altro video, le caratteristiche che
fanno un artista sono due.
La prima. La capacità di utilizzare il linguaggio di cui si
avvale.
In altre parole saper dipingere, se, per esempio, si tratta di un pittore.
La seconda. Quando si conosce bene il linguaggio che si
utilizza occorre avere qualcosa da raccontare attraverso quel linguaggio.
I contenuti, le atmosfere, le armonie, le invenzioni, i
racconti che andranno a finire nella tela sono il mondo interiore dell’artista.
Quello e nient’altro.
Quel mondo è degno di essere espresso solo quando è
enormemente vasto.
Quando la personalità che lo comunica si manifesta come estesa e dirompente.
Per prima cosa una simile espressione non ha bisogno di stomachevoli
fiumi di chiacchiere inutili.
Inoltre, una simile espressione non può in nessun modo generarsi
da una personalità votata alla dipendenza da qualcuno.
Chi sente di doversi muovere per elemosinare un po’ di
visibilità, chi ha la tendenza a sottomettersi, nelle proprie opere non potrà
che manifestare quella sottomissione.
Una sottomissione che è prima di tutto sottomissione di
idee.
Ovvero, chi è abituato a dipendere dall’esterno, ne dipende anche e soprattutto
nel proprio pensiero e quindi in ciò che rappresenta.
Quella persona, anche se tecnicamente preparata, non rivelerà
il proprio mondo. Ma quello degl’altri.
Nelle opere di tali personalità, non possiamo che aspettarci
un’espressione debole, condizionata e quindi mai originale e vigorosa. Anche se
tecnicamente ben fatte, le opere saranno sempre uniformate e vicine alla media.
Prive di una forza speciale che la renda interessanti veramente.
Occorre considerare anche che, con la stessa facilità con
cui un critico esalta e manda alla ribalta un artista, può decidere in ogni
momento di spegnerlo e riprecipitarlo nel buio per sempre.
E quindi un artista vero, come principio fondante della propria
persona, non deve orbitare intorno a nessuno.
Un artista vero è quello capace di brillare di luce propria.
Seguire le mode
Se c’è una cosa che fa scadere l’attività di un artista ai
più bassi livelli immaginabili è l’adattarsi a fare quello che si dice vada per
la maggiore.
Il valore di un’opera è fortemente legato alla sua originalità.
La qualità in assoluto più difficile da raggiungere.
È quasi impossibile non avere modelli.
Tuttavia esiste un equilibrio perfetto fra l’ispirarsi a modelli esterni e
liberare la propria espressione personale più pura.
Il conseguimento di quell’equilibrio è un’attività molto impegnativa.
Come si intuisce facilmente, è un’attività che coinvolge la parte più profonda
dell’animo di un artista.
È di fatto una ricerca spirituale, qualsiasi sia il rapporto che la persona ha
con la spiritualità.
La morte più totale di questi principi la troviamo nell’arte
contemporanea.
Questa forma di pseudocultura ha introiettato tutta una serie di modelli di
comportamento tipici dell’universo della moda.
Ha spinto l’arte verso un mondo frivolo dove a contare sono
i salotti, gli eventi, le stravaganze, l’essere presente, l’essere inseriti.
Un mondo di pura esteriorità dove i riferimenti metafisici, di cultura
profonda, al senso della vita, sono finti pure quelli. Sempre puntualmente
citati, ostentati sul piano dell’immagine, ma di fatto inesistenti.
Un vero artista non deve mai seguire una tendenza.
Semmai, un vero artista, è quello che una tendenza la crea.
Partecipare a
concorsi
Il concetto stesso di concorso, inteso come gara, come
competizione a premi, non ha nulla a che fare con l’espressione artistica.
Prima di tutto va detto che il concorrere ha senso quando ad
essere messi a confronto sono elementi quantificabili e oggettivabili.
Chi salta più in alto, chi corre più veloce, chi fa centro
più volte.
Chi risolve qualcosa nel tempo minore e via di seguito.
Tutte cose misurabili, che non hanno nulla a che vedere invece
con la natura dell’espressione creativa, la bellezza, la capacità di
affascinare di un’opera che non sono esprimibili come quantità.
Ma al di là del fatto che, in un concorso d’arte si va a
quantificare qualcosa che sfugge a qualsiasi parametro di misurazione, è
proprio l’idea di partecipare a concorsi che ha qualcosa di stonato.
Il dedicarsi ad un tale obbiettivo ha come effetto
collaterale quello di eclissare lo scopo vero per cui si producono opere.
Ovvero per dare voce ad un mito | per creare un’espressione
che consenta ad uno spettatore di riconoscere una parte profonda di sé |
per offrire una visione del mondo.
Tutto questo non ha davvero nulla a che fare con l’affermarsi
rispetto ad altri e ribadire una superiorità delle proprie doti.
Creare arte è un’operazione che va concepita con l’intento
di aggiungere. Aggiungere qualcosa all’universo.
Un concorso è qualcosa che, per sua natura, prevede invece
un escludere, poiché presuppone un finale con vincitori da annoverare e
perdenti lasciati fuori dall’attenzione.
E questo, in arte, non ha senso.
Anche nelle rare volte in cui tutto si svolge in maniera
onesta, la giuria di un concorso non può che rappresentare un’espressione del
gusto assolutamente parziale, e quindi qualcosa lontanissimo dall’essere
oggettivo.
L’idoneo e naturale destino di un’opera è quello di essere
lasciata al pubblico che ne determinerà spontaneamente il successo in base a
quanto questa sarà capace di toccare la sensibilità di chi le si avvicina.
Quindi una giuria che stabilisce un vincitore non sta di
fatto stabilendo un bel niente.
Per quale motivo un artista dovrebbe prestarsi a qualcosa
che, di fondo, non stabilisce in un bel niente?
Farsi attribuire un
coefficiente di valore
Sul mercato dell’arte c’è un sistema con cui viene calcolato
il valore economico dell’opera di un artista.
Questo funziona
sommando l’altezza e la lunghezza del quadro, espresse in metri, moltiplicato
per un coefficiente attribuito all’artista. Il risultato dell’equazione dà il
valore di una sua opera.
Poche cose ci sono di più stupide di questo meccanismo
appena descritto.
In altre parole, le opere vengono trattate come prodotti di
salumeria.
Così come una mortadella costa un tanto al chilo, un quadro viene valutato un
tanto al metro.
Far dipendere il valore delle proprie opere da un
coefficiente “al metro lineare” è forse più deprimente e svilente che dipendere
da un critico, come appena detto.
Corrisponde al dover accettare che le proprie opere siano in
qualche modo tutte livellate, tutte dotate di un tetto di valore oltre il quale
non possono elevarsi, fintanto che, sempre dall’esterno, non interviene
qualcuno a rimuovere quel limite, per criteri a dir poco ridicoli, e solo per
spostarlo un po’ più in su.
Questo, fra l’altro, rappresenta un grosso ostacolo alla
sperimentazione e all’apertura verso nuove prospettive, perché il meccanismo
pretende che ci sia una riconoscibilità dell’opera.
Quindi un appiattimento di schemi che, per un artista vero, dovrebbe risultare
qualcosa di insopportabile.
Se un artista decide legittimamente di stare sul mercato
deve essere egli stesso a stabilire il prezzo delle proprie opere, valutandole
una per una.
Non per questo non deve adattarsi alle leggi del mercato,
che però sono leggi naturali, come quella della domanda e dell’offerta.
Ovvero, se l’artista produrrà opere di livello, il mercato
risponderà spontaneamente aumentando la richiesta. E sarà normale alzare il
prezzo.
Essere identificato da un coefficiente è qualcosa che, oltre
a non avere alcun senso, è inaccettabile per il grado di libertà di cui deve pretendere
di godere una persona che ha deciso di esprimersi attraverso la sua creatività.
Se porti un bambino sotto ad una parete di roccia alta decine
di metri e gli chiedi se è disposto ad arrampicarsi fin lassù, il bambino ti risponde
senz’altro di sì.
Se un papà, che di mestiere fa, ad esempio, il muratore, si
lamenta perché la sua auto è vecchia e perde colpi, il bambino chiederà al papà
perché non ne compra una nuova.
Il papà spiegherà che non ha i soldi. Il bambino suggerirà: “Beh …
guadagnali!”.
Sono esempi questi di come un adulto si ritroverà a sorridere
dell’ingenuità di un bambino.
Il piccolo illuso crede davvero che sia possibile
arrampicarsi fin lassù.
Oppure che per avere i soldi necessari per cambiare un’automobile vecchia basti
decidere di guadagnarli.
Il piccolo illuso però, in entrambi i casi, non si sbaglia.
Ci sono persone che quelle pareti di roccia verticali le
scalano.
Quindi ha ragione il bambino. Si può fare.
Il padre, che fa il muratore, non può permettersi
un’automobile nuova.
Ha uno stipendio troppo basso.
Potrebbe permettersela invece il suo titolare che guadagna molto più di lui.
Anche lui faceva il muratore un tempo.
E allora anche in questo caso ha ragione il bambino.
Se ne deduce che una visione autentica del mondo, delle
possibilità della vita, ce l’ha solo il bambino.
All’adulto deve essere successo qualcosa per cui non riesce a
vedere … ad immaginare più.
L’educazione.
Questo qualcosa si chiama “educazione”.
L’educazione è quel processo esercitato sui bambini ad opera
degli adulti, per lo più attraverso scuola e famiglia, fatto di durissime e frustranti
limitazioni del proprio io.
Il processo persiste fino a quando quell’io non sia così ridotto
da convincersi che le possibilità nella vita sono pochissime.
Questo impoverimento della personalità operato
dall’educazione finisce all’incirca nella pubertà.
In quella fase della vita, l’individuo, dopo averlo privato di quasi tutte le
sue potenzialità, viene lasciato solo nel mondo con l’aspettativa che incominci
a realizzare se stesso.
Quell’ansia di inadeguatezza che è tipica di ogni adolescente,
altro non è che il disagio che questo prova dalla continua pretesa che il mondo
circostante ha su di lui che sappia chi è e cosa vuole fare, dopo che anni di quell’educazione
lo hanno svuotato di ogni contenuto.
Le
ideologie.
È in questa fase della vita che normalmente aggrediscono le ideologie.
Ad un individuo in cui è stato creato un enorme vuoto di
identità arriva improvvisamente la notizia dell’esistenza di un pacchetto
completo di idee già pronte in cui ogni minimo dettaglio di pensiero è stato
risolto.
Ad esempio, essere di destra oppure di sinistra significa
avere una risposta su tutto.
Una volta accettato il “pacchetto” sai quale deve essere la tua idea su ogni
cosa.
Hai un’idea sull’economia, sulla struttura della società, su
come rapportarti col diverso. Ti viene indicato chi è il diverso.
Sai quali libri devi leggere e da quali devi assolutamente stare lontano.
Quali forme d’arte apprezzare e quali detestare. Quali film vedere.
Sembra assurdo ma ti viene detto anche come ti devi vestire e
quali colori preferire.
Nero o blu se sei di destra, rosso o arcobaleno se sei di sinistra.
Ma più di tutti ti viene detto chi devi odiare.
Chiunque si presenti a te dichiarandosi della parte avversa è
un nemico.
Non importa chi sia, i suoi pregi, i suoi difetti, quale sia la sua storia, la
sua capacità di essere solidale con gl’altri.
È un nemico. Punto.
Dualismo.
Le ideologie infatti sono sempre dualistiche.
Spaccano la realtà in due parti nette e contrapposte.
Destra e sinistra. Pacifismo e interventismo. Maschilismo e
femminismo. Scienza e religione.
Hanno la comodissima abitudine di ridurre l’enorme complessità della realtà,
dove è difficilissimo orientarsi, a due poli solamente.
Questa rasserenante semplificazione però ha un piccolo prezzo
da pagare.
Devi scegliere da che parte stare.
E ovviamente, di conseguenza contro quale parte devi combattere.
Questa scelta ha enormi vantaggi però.
Oltre a definire in un colpo solo tutti gli aspetti della tua identità e di
inserirti in un gruppo, ti scarica dall’enorme onere di dover pensare.
Tutto è già stato “pensato”.
Naturalmente questo porta degli effetti collaterali.
Ad esempio a vivere delle contraddizioni.
Essere pacifista per esempio significa odiare e fare la
guerra a chi crede che sia giusto intervenire militarmente.
Si è pacifisti facendo la guerra a qualcuno.
Essere femminista o maschilista significa ribadire la
naturale supremazia di un genere su un altro.
Cioè si persegue la naturale contrapposizione fra quei generi che per natura
dovrebbero invece unirsi.
Il mondo
perfetto.
Ma le ideologie non si limitano a darti un’identità.
Indicano anche la soluzione ultima di quello che è il mondo perfetto.
Ti dicono che nel mondo ci sono, e ci saranno, sofferenze e
disagi solo perché non si è ancora realizzato il disegno indicato
dall’ideologia a cui hai aderito.
Se sei di destra sei perfettamente convinto che il mondo sarà
un luogo ideale solo quando gli individui saranno finalmente lasciati liberi di
realizzarsi e si sarà strutturata una perfetta gerarchia in cui i migliori, ben
riconosciuti, garantiranno, con la loro azione, la sussistenza anche dei più
deboli.
Se sei di sinistra sei perfettamente convinto che il mondo
sarà un posto splendido quando la ricchezza, non appena viene generata, verrà
immediatamente equamente redistribuita a tutti e le regole saranno tarate sulle
esigenze del più debole.
Naturalmente, affinché si realizzi un mondo perfetto in cui
donne e uomini saranno tutti felici, scompaiano i conflitti e possa regnare una
pace perenne, bisogna eliminare tutto ciò che impedisce al progetto ideologico
di concretizzarsi.
Ad esempio tutti quelli che hanno un pensiero non conforme a
quell’ideologia.
Ed è per realizzare quel mondo perfetto, quella pace, quella felicità
per tutti che i regimi di destra e di sinistra, nel secolo scorso, hanno
disseminato la storia di conflitti cruenti e programmato la sistematica uccisione
di decine di milioni di persone in tutto l’occidente.
L’equilibrio.
Ma cosa sono le ideologie? Dove si trovano? Di cosa vivono?
Di certo non si trovano in natura.
Tutto ciò che si trova in natura c’è da molto prima che comparissero le
ideologie, e tutt’ora la natura sembra andare avanti ignorando totalmente la
loro presenza.
Gli alberi continuano a germogliare, gli animali a riprodursi, il sole sorge e
la luna fa i suoi cicli e tutto avviene senza nessun bisogno delle ideologie.
Tutto sembra ubbidire a qualcosa di ben diverso e molto superiore.
L’unico luogo dove le ideologie esistono e si alimentano è la
mente umana.
Le ideologie sono solamente “pensiero”.
Idee, appunto, innestate nella mente.
E si nutrono a spese di chi le coltiva.
La cosa più bizzarra in tutto questo è che, essendo
dualistiche, si presentano nella mente sempre in due forme. Una a favore ed una
anti.
Facciamo un esempio.
Supponiamo di aver aderito ad un’ideologia progressista e di coltivare, di
conseguenza un’ideologia antifascista.
Per essere antifascista la mia mente deve per forza contenere l’idea di
fascismo.
E in qualche modo la mia mente, contenendola, la nutre, la fa esistere.
Insomma, nell’essere antifascista io alimento l’idea stessa
di fascismo.
La tengo in vita. Le do energia.
Cioè ottengo esattamente l’opposto di quello che vorrei.
Ovvero estinguere il fascismo.
Può sembrare un paradosso, ma questo è quello che si realizza
veramente.
Tanto più io scendo in piazza, esprimo, manifesto il mio antifascismo, tanto
più inciterò chi ha aderito all’idea fascista, a reagire alla mia azione.
Quindi la mia azione, volta a sopprimere l’ideologia opposta,
non fa che sollevarla e darle forza.
Ma il paradosso è ancora più grande.
Quando vedrò la parte opposta sollevarsi in reazione al mio
essere “anti”, mi convincerò ancora di più della necessità della mia
contrapposizione.
E sarò portato ad urlarla ancora più forte.
La parte avversa reagirà di conseguenza alzando ancora di più la voce in un
crescendo contino che avrà come risultato il disordine più totale.
Nel perseguire il proposito di rendere il mondo perfetto, non
faccio altro che inquinarlo generando conflitti e caos.
Paradossalmente, il miglior antifascista, o il miglior
anticomunista, è colui che non sa proprio cosa sia il fascismo, o il comunismo
e ne ignora l’esistenza.
Non conoscendo queste ideologie non sente la necessità né di aderirvi e né di
combatterle.
In questo modo semplicemente non le nutre.
La cura.
Le ideologie, lo abbiamo detto, sono subdole.
Si sono insediate nella nostra mente approfittando di un periodo di debolezza.
Si nutrono delle nostre energie.
Ci spingono continuamente verso situazioni di conflitto con l’esterno.
Ma esiste una cura per le ideologie?
Naturalmente sì. Ed è facilissima da attuare.
Per liberarsene, basta semplicemente decidere di abbandonarle.
Smettere di schierarsi.
Qualsiasi cosa si sia arrivati a credere di essere … comunista,
fascista, liberale, socialista … quell’idea può essere abbandonata
immediatamente.
Può essere lasciata cadere così come si lascerebbe cadere dalle mani un ferro
rovente non appena ci si accorge che ci sta consumando la pelle.
Naturalmente, nel momento in cui lo si fa, ricompare quel
vuoto di identità che, aderendo ad un’ideologia, ci illudevamo di aver riempito.
Un vuoto che, nuovamente, chiederà di essere colmato.
Questa volta però la soluzione di quel vuoto può essere
diversa.
Basta semplicemente fare lo sforzo di ricordare come quel vuoto si sia
generato. Ovvero quando hanno sradicato da noi il bambino che eravamo.
Il nostro vero io. Perfetto così come la natura lo aveva fatto.
La riscoperta di quel bambino è un’esperienza meravigliosa.
L’esercizio consiste nel mettersi a sondare tutti i limiti
che l’educazione ci ha imposto incominciando a sperimentare tutto ciò che non
abbiamo fatto nella vita perché convinti che non si poteva.
Si incomincia dapprima provando a sentire cosa si desidera
veramente, al di là di quello che l’esterno si aspetta da noi.
Poi a cercare di realizzarlo.
E miracolosamente ci si stupisce ogni volta che tutto è nelle nostre
possibilità, e lo è sempre stato.
Il nostro io, attraverso quella riscoperta, si ri-espande
esattamente come il diaframma in un respiro.
E soprattutto si torna in pace col mondo, perché si
incominciano a valutare le persone che ci circondano non più dalle idee che
proferiscono, ma per quello che sono veramente, è ci apparirà chiaro che chi
persegue un’idea non lo fa perché quell’idea lo rappresenta realmente, ma solo
per riempire il vuoto che si è creato nel dover diventare adulti.
Il mondo perfetto esiste davvero. È quello senza ideologie.
Sempre più spesso si sente parlare di cifre milionarie spese
per l’acquisto di opere d’arte.
Molto spesso si tratta di opere di cattivo gusto e di banale
esecuzione. Altre volte addirittura cose “inconsistenti”. Per esempio, opere
fatte di vapore, oppure un frutto già mangiato da qualcuno, quadri vuoti, opere
fatte con sostanze organiche destinate a degradarsi, opere che si
autodistruggono.
Per una persona comune diventa difficile trovare un senso
logico ai fenomeni del grande mercato dell’arte.
Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza.
Diciamo innanzitutto che questo NON Èil mercato dell’arte.
È semplicemente uno dei diversi modi con cui viene legittimata
l’esistenza di un’arte vuota di contenuti affinché queste forme artistiche diventino
il principale nutrimento culturale per le masse.
Vediamo come funziona.
La mente, quando riceve l’informazione circa una vendita milionaria
di questo tipo, viene indotta, tramite una serie di principi acquisiti, a credere
che quell’opera possa effettivamente avere un valore artistico e culturale.
Fate attenzione su come è composta la catena di assiomi che
forzano il pensiero a maturare questa convinzione.
1)Il primo
assioma è: Chi può spendere molti soldi per l’acquisto di un’opera d’arte è senz’altro
molto ricco.
2)Secondo: Chi
è molto ricco decisamente non può essere uno sprovveduto.
3)Terzo: Chi compra
un’opera, non essendo uno sprovveduto, avrà di sicuro la garanzia del suo valore
economico.
4)Quarto: Se il
valore economico è così alto, l’opera deve avere per forza un valore culturale
e artistico notevole.
Questa la meccanica di pensiero capace di penetrare alla
perfezione le menti più deboli e indurle a credere che quelle opere siano veramente
espressioni artistiche di alto livello.
La prima conseguenza di questo meccanismo naturalmente è il
riconoscimento da parte della massa di un alto valore culturale di quelle
opere.
Una seconda conseguenza è che numerose persone si metteranno a
produrre opere di quel tipo, illudendosi di essere artisti.
E col tempo arrivano anche a sperare di ricevere l’attenzione del pubblico e
dei compratori.
In questo modo si ritroveranno ad investire notevoli risorse
in termini di tempo e denaro per la produzione e la promozione della loro arte.
Credere di poter ripetere operazioni di questo tipo ottenendo
risultati simili in termini di attenzione mediatica e di ricavi economici, vuol
dire soffrire di gravi di disturbi di relazione con la realtà.
Disturbi che andrebbero risolti rivolgendosi a specialisti
del settore.
Ma, al di là di questo, come si fanno i soldi con l’arte?
Uno dei metodi più utilizzati è il seguente.
Si organizzano delle esposizioni aperte alla partecipazione
degli artisti che vorranno aderire.
Gli artisti in cerca di occasioni per avere visibilità sono migliaia e non sarà
difficile reperirne ogni volta un buon numero.
Si chiede, per la partecipazione alla mostra, una cifra in
denaro, di solito qualche centinaio di euro, spesso goffamente giustificata dalla
copertura delle spese dell’evento.
Se, nel programma dell’evento, è prevista la passerella di un
critico famoso, questo farà aumentare sia la cifra del contributo di
partecipazione, sia il numero dei partecipanti. Infatti in tanti saranno
attirati dalla lotteria.
La lotteria consiste nella speranza che il critico, passando
davanti alla loro opera, decida di aver scoperto un talento che vorrà promuovere
ad alti livelli.
Per una mente sveglia non è difficile fare qualche calcolo al
volo sui guadagni che si possono ottenere.
Facciamo un esempio tenendoci su una situazione modesta.
Ammettiamo che il contributo di partecipazione sia di 500 €,
e i gli artisti partecipanti siano una trentina.
Per un evento … ammettiamo … di una decina di giorni, Il
ricavo consisterà di circa 15.000 €.
Tolte poche spese per un eventuale catalogo e per la gestione delle sale,
quello che rimane in tasca è davvero una cifra di tutto rispetto.
E bisogna considerare che spesso le quote di partecipazione
sono anche più alte, e i partecipanti molti di più.
Naturalmente, chi si troverà a gestire queste quantità di
denaro, non ha nessuna convenienza a sbattersi per cercare di vendere le opere
di artisti anonimi che spesso propongono cose di livello molto basso.
Il guadagno c’è già stato, ed è pure soddisfacente.
E l’artista? Cosa deve fare un artista per fare soldi con
l’arte?
Per prima cosa deve smette di illudersi che sia possibile produrre,
proporre e vendere opere senza nessun significato che ha creato solo per
emulare fenomeni mediatici di moda.
In questo modo eviterà un’emorragia di denaro, energie,
speranze che logorano la sua persona.
Dopo di che deve chiedersi quanti e quali talenti pensa di avere e se questi
ricadono effettivamente nella sfera dell’arte.
O piuttosto dovrebbe dedicarsi ad altro.
La persona che invece ha già sperimentato un talento nel
mondo della produzione artistica deve assolutamente sottrarsi alla tentazione
dei tanti eventi a pagamento che gli vengono continuamente proposti.
Questo gli consentirà, in primo luogo, di ritrovarsi in tasca
diversi soldi che non avrà buttato e che, rimanendo a sua disposizione, potrà
spendere per sé come meglio crede.
Inoltre, smettendo di fare la parte del pollo che viene
continuamente spennato, compie un primo gesto volto a riacquistare una sua
dignità personale che gli è essenziale sia per continuare a produrre che per promuoversi
nella maniera più corretta, efficace e soprattutto decorosa.