sabato 22 giugno 2019




La domanda che mette in crisi il predicatore

Come comportarsi con chi vuole convincerci di aderire alla sua religione.


Passeggiavo per la città quando un gruppo di ragazze e ragazzi, piuttosto giovani, mi ha fermato per la strada. Portavano con loro un cartello con uno slogan religioso. Avevano l’accento inglese. Mi hanno detto di appartenere ad una comunità mormona. Mi hanno chiesto se conoscevo i Mormoni e si sono sorpresi perché qualche nozione sono riuscito a darla.

Stavano facendo propaganda religiosa. Non sono certo i primi! Mi hanno parlato appassionatamente della loro fede e della loro idea di Dio. Io li ho ascoltati con interesse.

In molti si infastidiscono dall’invadenza di gruppi religiosi che ti precipitano in casa o ti fermano per la strada rubandoti del tempo, magari in momenti poco opportuni in cui si è già carichi di pensieri. Oppure ti disturbano quando dai pensieri sei riuscito a liberarti e ti stai godendo un po’ di serenità, sempre più rara in certi periodi.

In molti vorrebbero spiegare loro che non sentono alcuna necessità di abbracciare una nuova fede o di essere salvati da non si sa cosa. In molti vorrebbero liquidarli senza rovinarsi la giornata resistendo all’istinto di rispondere con cattiveria, cosa che poi ti fa stare più male di prima, ma neppure essere troppo morbidi rischiando di non riuscire a svincolarsi in breve tempo dal fastidio della loro ingerenza.

Io personalmente ho un approccio diverso. Più accogliente. Forse dovuto alla lunga passione per tutti gli aspetti della natura umana, forse all’irresistibile voglia di provocazione che ho sempre avuto, ma anche solo alla curiosità e al desiderio di conoscenza.

Ascolto con attenzione. Cerco di trovare aspetti interessanti ma quasi sempre quello che mi arriva è una piattezza di frasi fatte in cui si capisce che l’unica vera forza in gioco che muove i loro intenti è l’appartenenza ad un gruppo. La fede, quella vera … con tutto il rispetto … mi sembra sempre molto lontana.

Quando tocca a me a parlare li porto sempre sul un argomento: “Molto interessante quello che mi racconti sulla tua religione. Tuttavia ho una domanda da farti.

Ma tu… perché vuoi convincere me?”

A questo punto il volto dell’adepto si incupisce e l’espressione precipita nel vuoto di un pensiero che lo destabilizza. Non escono parole.

La mente va a cercare fra le tante frasi fatte utilizzate in anni di propaganda ma non ce n’è una adatta a dare una risposta. Balbettano qualcosa senza dire nulla. Tentano di cambiare discorso. Spesso chiudono in fretta e salutano.

A quella domanda non c’è risposta. O meglio, la risposta ci sarebbe. Ma suscita in loro orrore per se stessi.
Quella domanda va a toccare un nervo scoperto. Entra nella ferita ed espone la parte di sé tenuta nascosta perché dolorosa e insopportabile.

Già! Che bisogno c’è di convincere gli altri che la propria fede è una cosa meravigliosa?

Un pensiero superficiale porterebbe a dedurre che, chi è disposto ad esporsi così tanto da andare a predicare per la strada, sia dotato di una grande convinzione per la propria confessione.
Secondo questo stesso pensiero, la più grande forza nei confronti del proprio credo ce l’ha chi è disposto ad immolarsi con una cintura esplosiva in mezzo agli infedeli per fare una strage.

Se questo vi sembra logico è solo perché state applicando la logica in un campo dove la logica non ha applicazione.

La fede di un kamikaze, in realtà, è talmente debole che l’esistenza degli “infedeli” è una cosa così fastidiosa al punto da volerli eliminare. Per capirci meglio, coloro che non professano la sua fede, con il loro semplice esistere, vanno a toccare la parte di lui che sa di non credere in Dio, e lo fanno in maniera così forte da essere insopportabile. Da qui l’esigenza di distruggerli.

Allo stesso modo, cercare di convincere altri ad aderire al proprio credo, predicando porta a porta, è sintomo del bisogno di essere in quanto più numerosi possibile per rafforzare una fede di fatto vacillante e assai poco convinta. 

Cercando di convincere qualcuno si vuole mettere alla prova la propria idea di Dio per vedere quanto affascini gli altri e quanto non ci faccia sentire dei poveri creduloni, che è proprio il dubbio che si è maturato su se stessi.

La fede vera non ha mai bisogno dell’approvazione esterna. L’uomo di fede vera non ha la necessità di convincere nessuno. Non ha un nemico da combatte. Né dentro, né fuori.

Tutte le volte che ci si ritrova a difendere appassionatamente un’ideale o a fare la guerra a chi non la pensa come noi, bisogna farsi venire il dubbio se di quella cosa siamo convinti veramente. Se quell’idea, che può essere di natura politica, religiosa, o la negazione stessa dell’esistenza di un Dio, non sia di fatto una cosa che ci appartiene, ma solo un punto fermo di cui abbiamo bisogno per fissare gli elementi di un’identità che fa fatica a delinearsi.
                                                                                        Alberto Melari


venerdì 14 giugno 2019


Quando tutto si muove


Ero con i mie figli nel bosco che passeggiavo ai margini di una riserva. Vedo un cervo sdraiato in mezzo all’erba alta. Chiamo i bambini sottovoce e cerco di porre la loro attenzione su quella scena. Ma nonostante glielo indicassi, loro mi dicevano di non vederlo. Li ho presi in braccio uno alla volta perché scrutassero meglio, ma niente. Non riuscivo a farglielo individuare.

Non mi restava che fare una cosa. Battere le mani e gridare. L’animale si è accorto di noi, si è alzato ed è scappato. I bambini lo hanno finalmente visto. Avrei voluto evitare di disturbarlo, ma non riuscivo ad arrendermi all’idea che non lo vedessero.

Naturalmente i bambini sono riusciti a vedere il cervo perché si è mosso. Quando qualcosa si muove, e tutto il resto è fermo, l’attenzione cade per forza su quello che si muove. Quando invece tutto era fermo, anche il cervo, era più difficile individuarlo.

È una cosa che si comprende bene. È nell’esperienza di tutti.

Più difficile ancora è vedere qualcosa che si muove in mezzo a tante altre che si muovono. Provate ad individuare un cervo, uno in particolare, in mezzo ad un branco di cervi che corrono! Lo perdereste continuamente e nelle poche volte che lo individuate non sarete mai sicuri che sia proprio lui.

È fuori da ogni dubbio che questo periodo storico è estremamente carico di avvenimenti (di cose che si muovono) e purtroppo il principio appena esposto per il branco di cervi in movimento vale anche per quello. Il risultato di non riuscire a d individuare niente è il sopraggiungere della confusione più totale nella mente di chi lo vive.

Ogni evento, ogni fatto, ogni idea che nasce, avrebbe bisogno, per chi le sperimenta, di un tempo di riflessione. Di un periodo di esame. Di uno spazio mentale da dedicargli affinché ne emerga il significato.

Il tempo in cui stiamo vivendo è un succedersi continuo di eventi in totale assenza di quell’intervallo necessario alla loro elaborazione.  Nascono leader. Crollano leader. Nascono idee. Idee muoiono. Si compiono stragi. Si combatte per la pace. Si annienta il male ma subito dopo il male si compie. Un verificarsi incessante di accadimenti. Un nascere di idee nuove. Il morire di quelle vecchie. Assistiamo al successo di qualcosa e poco dopo al suo fallimento. Senza i tempi necessari a comprenderne le ragioni e il significato.

Difronte ad un fluire così denso di eventi ed idee l’individuo comune, che da sempre è stato avido di punti fermi sui quali aggrappare la propria identità, tende ad andare nel pallone. Si aggrappa continuamente a qualcosa. Un modello di vita, un’ideale, una promessa di un futuro migliore, una struttura istituzionale, una fede, l’individuazione di un nemico. Regolarmente quella cosa è destinata a sfuggire in maniera inesorabile. Ogni volta si consuma una delusione a cui segue la ricerca affannosa di una traiettoria nuova e risolutiva che dia pace al divenire a cui è difficilissimo adattarsi.

E allora come difendersi da tutto questo?

In realtà, non solo non ci sarebbe nulla da cui difendersi, visto che una realtà così fatta deve solo essere accettata e nient’altro, ma occorre anche capire che un periodo storico così singolare è un’occasione unica per capire qualcosa che altri momenti sarebbe molto più difficile da comprendere.
Immaginatevi un pavimento completamente ricoperto di palline di gomma. Il pavimento, ad un certo punto, comincia a muoversi ondeggiando in modi sempre diversi. Le palline iniziano a rimbalzarci sopra, ad urtarsi fra di loro e negl’urti si deformano continuamente. Si scambiano velocità e direzione incessantemente. Tutto è in moto e tutto è enormemente in confusione.

Adesso chiedetevi. In un sistema di questo tipo, cosa c’è di fermo?

La risposta non è affatto semplice. O quantomeno non lo è se cerchiamo un elemento che è fermo fra quelli che compongono il sistema.

L’unico elemento fermo, l’unica costante, è da cercare nel movimento stesso. Ovvero, nelle leggi che lo regolano.

Nel caso delle palline di gomma le leggi sono quelle della meccanica (la legge di gravità, la legge della quantità di moto ecc.). Nel caso del caos innescato da circostanze storiche e sociali le leggi sono tutte quelle che regolano i rapporti fra gli esseri umani, il sorgere e il placarsi di istinti e bisogni, la necessità recondita degli esseri umani di essere dominati o di dominare, le pulsioni più profonde.

In questo momento, l’eccesso di movimento regolato da quelle leggi, espone le leggi stesse all’osservazione. Questo è un periodo inconsueto dove si possono esplorare territori sommersi del genere umano da cui trarre tante di quelle informazioni su noi stessi e sul mondo da ricavare un patrimonio di conoscenze uniche e di grandissimo valore. Osservando la realtà ora, si giunge all’essenza stessa del “motore immobile” da cui la realtà si genera.

Ma c’è una condizione che è essenziale. Per farlo occorre essere fuori dalla tempesta di movimento di cui si deve divenire osservatori.

Cosa vuol dire allora esserne fuori? Essere esterni al movimento significa resistere al fascino dello schierarsi ideologico. Significa smettere di ammirare i leader che a turno si contendono la scena sul palco del “risolvo tutto io!”. Significa l’abbandono totale di ogni fede, di ogni punto fermo che ci fa sentire al sicuro, di ogni cosa che oscurerebbe la vista a chi si è dato il compito di essere solo osservatore. Significa più di tutti affrancarsi da se stessi e da tutte le strutture mentali costruite in anni e anni di ubbidienza agli ordini che arrivavano dall’esterno. Significa fare proprio quel precetto evangelico che è il più trascurato ed il meno compreso di tutti, ma è quello che contiene il messaggio più profondo e da solo sarebbe sufficiente a spiegare l’intero senso dell’esistenza.

“Rinnega te stesso” (Marco 8, 34).
                                                       Alberto Melari

lunedì 3 giugno 2019



La sofferenza cambia il mondo.
 

È una scena tipica. Vi sarà capitato di vederla. Da una parte un idealista (e attivista) che cerca di cambiare nel mondo ciò che non va. Dall’altra un pessimista (ma guai a chiamarlo così! Lui è “realista”) che pronuncia la notoria frase “… ma il mondo non si cambia!”.
L’idealista, dal canto suo, toccato nei suoi propositi più sentiti, ha mille esempi da addurre di persone che il mondo lo hanno cambiato eccome, e sul loro esempio continuerà le sue battaglie.

Ma insomma, il mondo si cambia o non si cambia?

Di sicuro il mondo cambia.

Che il mondo cambia è talmente palese che trattarne la dimostrazione risulta quasi umiliante. Nulla è mai stato uguale. La realtà è un flusso sempre in evoluzione. Nessuna società somiglia alle società che l’hanno preceduta. Ogni epoca ha affrontato le sue questioni e ha prodotto soluzioni e problemi. Sempre diversi.

Quello che ci interessa non è tanto dimostrare che il mondo cambia, ma il meccanismo attraverso cui il cambiamento avviene.

E nello spiegare questo meccanismo dobbiamo purtroppo utilizzare una parola che stride piuttosto sgradevolmente alla nostra esperienza.

La parola “sofferenza”.

È questo il mezzo attraverso il quale il più delle volte il cambiamento si compie. Questo è vero tanto per le singole persone, quanto per i gruppi, dalle coppie, alle classi sociali, agli stati.
Tutti i cambiamenti autentici sono preceduti da una crisi. Tutte le volte si soffre. Ecco le fasi del cambiamento intrise di questa sofferenza.

Primo - Si inizia a soffrire perché la realtà in cui si vive non va più bene. Pertanto si avvia a cambiare.
Secondo - Si soffre perché il passo verso il cambiamento presuppone la fine di quella parte di noi che, nonostante ci faccia stare male, non vorremmo abbandonare. Ci accorgiamo che quel malessere, anche se ci fa soffrire, lo conosciamo, ci è noto, e comunque è sempre meglio dell’ignoto a cui si va incontro.
Terzo – Dopo aver scoperto che quello star male in fondo lo preferiamo, al cambiamento si oppone resistenza e quindi si retrocede, rinunciando a progredire.
Quarto - Tornando indietro si ritrova tutta la sofferenza da cui ci si voleva liberare, per cui si rinnova la necessità di fare un passo fuori. E ricomincia il giro dal punto primo.

Questo meccanismo perverso in genere dura molto tempo. Talvolta anni. Ad ogni giro la sofferenza aumenta e la resistenza pure. E continua fintanto che il cambiamento non diventa obbligatorio poiché la sofferenza della condizione da cui dovremmo affrancarci ha raggiunto soglie troppo elevate per essere sopportata.

Solo allora ci si butta nel vuoto. Finalmente si evolve. Si trova la pace in un io rinnovato.

Ci sono esempi nell’esperienza di ognuno. Ci sono donne che intraprendono relazioni con uomini che le trattano male. Quelle relazioni spesso si interrompono. Ma poi si ricompongono per interrompersi di nuovo per lo stesso motivo. Oppure, le stesse donne cambiano partner, ma quello che si scelgono successivamente è di poco diverso da quello che hanno lasciato. Solo dopo un lunghissimo ricadere nello stesso vizioso meccanismo arrivano a comprendere che ne sono loro stesse la causa nel momento in cui scelgono la persona da mettersi accanto. Solo dopo aver raggiunto questo stato di coscienza, dopo aver sofferto molto, possono operare un vero cambiamento e vivere finalmente uno stato affettivo sano con la persona giusta.

Anche l’evoluzione di un gruppo segue questo schema. Un popolo che è sottoposto ad una dittatura si libererà solo quando disordini, corruzione e condizioni sociali nefaste avranno raggiunto livelli insostenibili. Solo allora si trova la forza di creare una vera resistenza che destabilizza i poteri opprimenti fino a farli decadere. La storia, anche recente, ci insegna che quando potenze esterne intervengono su regimi dittatoriali per portare la democrazia, la democrazia puntualmente non si realizza. Il popolo ricade nel disordine o in una nuova dittatura o in qualche altra forma di schiavitù. Si libererà solo dopo che la condizione di malessere sarà stata sufficientemente alta da risvegliare la coscienza collettiva.

L’idealista che vuole cambiare il mondo è colui che vorrebbe una realtà dove nessuno debba soffrire e con la sua azione tenta di risparmiare agl’altri quella sofferenza. Oltre a rappresentare un’impresa utopica, non si rende conto che, sottraendo qualcuno alla sofferenza, blocca di fatto la sua evoluzione se quel qualcuno ha a disposizione proprio la sofferenza come unico mezzo per la propria crescita.

Tutte quelle le persone, a cui accennavamo prima, che nella storia hanno contribuito a creare grandi cambiamenti, hanno potuto farlo solo perché la loro azione si è innestata ogni volta in un momento storico favorevole all’evoluzione. Un momento in cui le masse avevano maturato, dopo un lungo periodo di crisi, la necessità di una spinta verso un rinnovamento causata da una saturazione data da un periodo di sofferenza.

Quando il cambiamento viene proposto in un momento in cui non si è ancora sofferto abbastanza, incarnare in un qualsiasi modo l’essenza di una rivoluzione rimarne un’azione del tutto inutile.

Il pessimista, dal canto suo, se realmente pensa che il mondo non possa cambiare e che le negatività del genere umano siano destinate ad un ristagno perenne, ha incredibilmente perso la cognizione del flusso interminabile di cambiamento a cui ogni realtà è ineluttabilmente soggetta. Ognuno è destinato a sottoporsi, prima o poi, alle conseguenze delle proprie azioni. Che sia l’aver fatto del male, oppure l’aver permesso a qualcuno di farselo fare. La sofferenza derivante da quel male è la sostanza da cui si genera l’evoluzione.

E dunque, anche se nella nostra cultura siamo abituati a rifuggirla, la sofferenza ha un valore enorme. Quindi sono molti i casi in cui non andrebbe risparmiata a chi la sta vivendo. La sofferenza è il modo con cui si risveglia una coscienza e la si induce alla crescita. Ogni volta che c’è una sofferenza c’è un passaggio da fare al quale si sta opponendo resistenza. Quella sofferenza prima o poi, di quella resistenza, sfonderà il muro.

Che si evolva attraverso la sofferenza può apparire crudele. Ma per fortuna non è una legge ineludibile. L’alternativa non solo esiste ma è fruibile in ogni momento. Anche adesso. Potenzialmente, un’evoluzione che richiede anni di malesseri, potrebbe essere compiuta in un solo giorno in un pieno regime di pace.

L’evoluzione senza sofferenza è una via semplice a disposizione di tutti ma di fatto utilizzata da pochissimi. È la strada della consapevolezza. Consiste di un’attenzione costante su se stessi e sulla propria condizione che porta ad intuire la necessità del cambiamento prima che siano le circostanze impervie della vita a doverlo obbligare. È il percorso in cui, in uno stato di auto-osservazione continua, ci si accorge quando c’è qualcosa che non va e occorre operare un rinnovamento prima che le condizioni volgano all’estremo. È la via in cui si permette alla realtà di scorrere senza creare opposizione al divenire naturale delle cose e si accetta il flusso della trasformazione. È maturare la coscienza che vivere è prima di tutto evoluzione, e non la ricerca continua di una situazione di gradevole immobilità.
                                                                                                          Alberto Melari