martedì 30 aprile 2019



Il miglior genitore.

Quello che veramente dovresti fare per tuo figlio.


Da qualche anno sono genitore. Anzi ... lo sono due volte perché sono padre di due bambini. Devo dire che questo nuovo ruolo mi ha aperto mondi prima sconosciuti. Niente che qualsiasi altro neo-padre non abbai sperimentato. Ad esempio riunioni con altri genitori per incontrare esperti di ogni tipo. Educatori, psicologi, nutrizionisti.

Capita spesso di confrontarsi con altre persone che, vivendo l’esperienza della genitorialità e volendo dare il meglio, si informano, ma soprattutto si formano, perché l’educazione dei figli è davvero una cosa seria.

In quelle occasioni vengono fuori le mille domande. Cosa bisogna fare quando il bambino si comporta in quello specifico modo? Come bisogna comportarci noi quando accade quella determinata cosa? Cosa è meglio fare quando si dovrà affrontare quell’importante passaggio?
Si fa di tutto affinché nell’educazione niente sia lasciato al caso.

Un giorno, mia figlia più piccola, solo tre anni, era sul tavolo che colorava il suo disegno, e mentre colorava parlava fra sé. Non ricordo cosa dicesse, ma si stava raccontando da sola un qualcosa che l’aveva lasciata sgomenta. Infatti ha concluso, scuotendo la testa, con la frase - È roba da matti!!!
Naturalmente ci ha fatto sorridere quella strana espressione. Dove lo avrà preso quel modo di dire? La risposta l’ho avuta qualche giorno dopo, quando ho sentito in più di un’occasione, usare quest’espressione idiomatica dalla mia compagna.

Insomma, potremmo dire che la bambina imitava la madre. In realtà, il termine “imitazione” non è affatto il più appropriato.

Facciamo un esempio. Immaginate vi venga chiesto di imitare Sgarbi. Ecco che allora dapprima vi scapigliate un poco. Infilate un paio di occhiali. Poi incominciate ad imprecare a testa bassa come in preda ad una nevrosi, mescolando a frasi ingiuriose scombinate un intercalare di - Capra! Capra! Capra!
State effettivamente simulando l’essere arrabbiati con qualcuno, ma dentro siete tutt’altro. Infatti sarete senz’altro divertiti dal gioco e vi scapperà pure da ridere. Questa si può chiamare un’imitazione.

Mia figlia invece, nel suo racconto, sentiva effettivamente una sensazione di perplessità. E come altro avrebbe dovuto esternarla se non con un’espressione con cui l’ha vista esprimere nella sua poca esperienza di vita dalle persone che ha intorno nel quotidiano?

Allora il termine “imitazione” va sostituito con un altro. Il termine giusto è “modello”.
Ed è questa la notizia bomba. L’educazione dei figli passa per un 80%, ma forse anche un 90%, ma forse potremmo azzardare anche qualcosa di più, attraverso il meccanismo del modello.

Questo significa che frequentare una scuola per genitori serve davvero a ben poco. E i pareri degli esperti, i libri sull’educazione, i confronti con altri genitori, incidono per un nonnulla sulla formazione della personalità dei figli.

I figli crescono guardandoci e fanno inevitabilmente propria la nostra immagine. E non gioverà neppure tanto offrire loro un’immagine quanto più possibile buona, cosa che va comunque fatta, perché è molto di più quello che ci sfugge, nel comportarci quotidianamente, da quello che coscientemente noi offriamo loro. 

Pertanto reagiranno alla vita come vedranno reagire noi.
Se di fronte ad una difficoltà ti deprimi, il bambino imparerà ad essere depresso. Se invece entri in uno stato d’ansia, il bambino crescerà ansioso. Se ti vede invece reagire con decisione e dare il giusto peso ai problemi, crescerà risoluto e determinato.

E la regola vale per ogni cosa. Le tue angosce, le tue debolezze, le tue paure, tramite questo meccanismo, saranno le sue. I tuoi punti di forza, le tue virtù e la tua capacità di gestire la vita allo stesso modo passeranno al bambino così come la tua visione del mondo. Tutto il bene e tutto il male che hai dentro saranno il punto di partenza della sua vita. Da quello inizierà la sua evoluzione come essere umano.

È raro che accada, ma se un genitore arriva a prende coscienza di questo, nutrendo l’amore sterminato che normalmente si sente per un figlio, potrebbe provare rammarico per tutto ciò che nella vita non ha risolto. 
Ma per fortuna la vita è buona, e fa sì che nulla gli impedisca di farlo iniziando da adesso.

È un attimo dopo questo bel proposito che arriva la crisi. Un attimo dopo ci si accorge che quell’adesso è lo stesso di tanti anni fa, quando già quella volta la vita ti aveva chiesto di evolvere su quella maledetta questione. E poi ancora pochi anni dopo. E ancora un’altra volta a seguire. E tutte le volte hai rimandato, perché quell’abisso ogni volta faceva paura. E quando lo guardi capisci che è cambiato ben poco, e quella paura la senti ancora oggi.

Ed è qui la questione. Il miglior genitore non è quello che si dà da fare per entrare al meglio nel ruolo di educatore. Il miglior genitore è quello che trova il coraggio di affrontare tutti i cancri che nella vita ha lasciato alle spalle. È colui che coraggiosamente decide di guardarsi dentro e senza paura si assume le responsabilità di ogni cosa che nella sua vita non ha risolto e si getta nel baratro che inevitabilmente precede ogni significativo autentico cambiamento. Che ha il coraggio di rinnegare una parte di sé, e di suicidare il proprio io malato, sprofondando nel vuoto che ogni compulsione lascia nella sua dissoluzione.

Allora mi domando, quanti di quei genitori che vanno a quelle riunioni sarebbero pronti a questo? Partecipare a quelle riunioni non è solo il pretesto per evitare quello che realmente servirebbe di fare?

Quello che non si fa mai ma si potrebbe fare adesso.  Quell’adesso che è adesso in ogni momento.  

                                                                                                                 Alberto Melari

lunedì 22 aprile 2019



Il primo passo verso la ricchezza.

Il ricco e il povero e il loro rapporto con il mondo.


Una delle pochissime doti veramente spiccate che io possiedo è che sono un ottimo cercatore di asparagi. Sono davvero il migliore! Vi prego non mettere mai in discussione questa idea che ho di me perché non intendo in nessun modo rinunciarci. Se pensate di essere più bravi, o addirittura avete la certezza di esserlo, non ditelo. Né tantomeno presentatevi per dimostrarmelo. Al più parlatene fra di voi quando non ci sono.

Per fortuna gli amici che ho sono tutti mediocri cercatori. Due in particolare con cui vado spesso. Quando andiamo insieme, durante la ricerca a me capita di richiamarli per aiutarmi a portare il mazzo, perché non ho più mani dove tenerli. Bisognerebbe procurarsi un recipiente in effetti. Ma tanto loro, nello stesso tempo che io ho fatto man bassa, ne hanno raccolti così pochi che di spazio ne hanno sempre.

Una volta, mentre eravamo in un posto dove gli asparagi si raccoglievano come le margherite, mi sono fatto una domanda. Ma loro perché non li vedono? Ho escluso, fra le motivazioni, la pigrizia, poiché ho l’impressione che di impegno ce ne mettano parecchio. Eppure troppe volte li ho visti passargli accanto e lasciarseli incredibilmente indietro senza capacitarmi di capire come non li abbiano individuati.

La risposta probabilmente sta in questo. Sembrerebbe che, Il bosco che vedo io e quello che vedono loro, siano due cose per certi versi differenti.

Evidentemente gli steli verdi dell’asparago io li focalizzo davvero bene, come se fossero evidenziati. Come se si stagliassero sullo sfondo neutro del bosco con un colore luminoso e accesso. Mentre per loro sono solo un verde su verde che si fonde col resto della lettiera sfuggendo all’attenzione allo stesso modo di tanti altri elementi che la compongono. Fili d’erba, bacche, gusci di lumaca, sassi, foglie di ogni tipo, che neppure io, naturalmente, di solito tendo a notare.

In questo banale esempio si nasconde la ragione più profonda della capacità di ciascuno di trovarsi in uno stato di ricchezza piuttosto che in uno di povertà. E molto di più ancora. Per esempio l’incomunicabilità che c’è, di solito, fra un ricco e un povero.

Di norma il povero, desiderando di uscire dal suo stato di miseria, accusa il ricco di essersi appropriato di tutte le risorse presenti, e trova in questo la ragione della sua povertà. Quindi ritiene giusto che il ricco restituisca parte di ciò che ha accumulato e lo divida con lui.

Il ricco, dal canto suo, che invece la ricchezza e le opportunità per accedervi le sa vedere, rigetta quell’accusa, ritiene illegittima la restituzione, e tende ad incolpare il povero di pigrizia o inettitudine.

Esattamente come i miei amici non vedono gli asparagi quando sono nel bosco, ma li vedono molto bene quando glieli mostro io tutti in blocco nella mano dopo averli raccolti, il povero riesce a vedere la ricchezza solo quando qualcuno l’ha accumulata.

Tuttavia, così come i miei amici non dovrebbero pensare che il bosco sia privo di asparagi perché sono stato io ad averli raccolti tutti, egli non dovrebbe pensare che le opportunità di arricchirsi si siano ormai esaurite dopo il passaggio del ricco. Dovrebbe piuttosto chiedersi perché a lui non è dato di vedere la ricchezza allo stesso modo, e come invece possa riuscire a farlo.

Perché di sicuro di ricchezza ce n’è, così come io potrei dimostrare ai miei amici che, nonostante il mio passaggio, il bosco è ancora gremito di asparagi. Sarà sufficiente spostarsi di poco, o porre un attenzione diversa durante la ricerca.

Da questa teoria dovremmo dedurre che il povero ha un problema. Quello di non percepire la realtà per come è, cioè ricca e sovrabbondante. Ed in effetti è così. La povertà altro non è che una forma disfunzionale. Se ne esce solamente cercando di portare la propria visione del mondo verso una modalità efficiente. Riuscire in questo non è un’impresa da poco. Tuttavia, averlo intuito significa già aver compiuto un passo importante e, soprattutto, smettere di sprecare tempo ed energie ad accusare chi è ricco, ovvero chi questa disfunzionalità non ce l’ha.

Con questo fondamentale cambiamento si può davvero iniziare un lavoro su se stessi e sulla propria visione del mondo che può realmente rovesciare la situazione di una vita.

Il ricco, dal canto suo, è libero da questo tipo di afflizione. Ma questo non significa che nel suo percorso di vita non avrà altro su cui lavorare. Nel suo cammino starà facendo probabilmente i conti con problemi di natura diversa che non riguardano l’accesso alle risorse, ma altre fra le innumerevoli disfunzionalità dell’ego, visto che, pure quelle, esattamente come gli asparagi nel bosco, ubbidiscono alla legge dell’abbondanza di tutte le cose.

                                                          Alberto Melari

lunedì 15 aprile 2019

La scuola fallisce sempre




Il metodo delle 2F.


A scuola si studia e studiando s’impara. Di sicuro la prima cosa che si impara è proprio a studiare. Infatti la prima cosa da imparare a scuola è proprio come si deve studiare.

È la questione del cosiddetto “metodo di studio”. In particolare, quello che si apprende a scuola, io lo chiamo il metodo 2F. 
Se state leggendo questo testo vuol dire che sapete leggere e quindi a scuola ci siete andati. Pertanto il metodo 2F lo conoscete per forza. Tuttavia vale la pena ricordarlo nel dettaglio.

Questo che segue è l’algoritmo del metodo 2F.
L’insegnante dice ai ragazzi: “Per compito studiate il capitolo 6”. I ragazzi, tornano a casa, aprono il libro al capitolo 6. Il capitolo è diviso in paragrafi. 6.1, 6.2 e via di seguito. Talvolta i paragrafi possono essere divisi in sotto-paragrafi. 6.1.1, 6.1.2 …

Questa suddivisione è fatta per facilitare l’applicazione del metodo 2F. Ovvero: lo studente legge il primo paragrafo. Poi chiude il libro e tenta di ripeterlo a voce alta senza guardare. Se la ripetizione è andata a buon fine si passa al paragrafo successivo, altrimenti si rilegge il tutto e si ripete di nuovo. Una volta letti e ripetuti tutti i paragrafi si chiude il libro e si tenta di ripetere l’intero capitolo tutto insieme. Se il tentativo va a buon fine lo studio è finito, altrimenti vanno riletti i paragrafi non ben assimilati e si tenta la ripetizione dell’intero capitolo un’altra volta.

Non nascondendo che nell’esposizione del metodo appena fatta ho riprovato un certo senso di inquietudine, passo a spiegare perché questo metodo lo chiamo metodo 2F.

La prima “F” sta senz’altro per ‘fatica’. È innegabile infatti che lo studio così fatto sia faticoso. Ed è uno dei motivi alla base del fatto che in molti scelgono di non proseguire gli studi oltre i livelli minimi necessari per la vita. È opinione comune che lo studio sia sacrificio.

La seconda “F” invece sta per ‘fallimento’. Sì, perché, se lo scopo dello studio è imparare e farsi una cultura, il metodo 2F fallisce praticamente sempre!
Lo so. È difficile comprendere questo concetto. Soprattutto per gli insegnanti che nella scuola ci credono e che vivono il loro lavoro come una missione e che il 2F lo fanno applicare da sempre. D'altronde perché dovrebbero credere che il metodo fallisca? Una volta che lo studente ha studiato il capitolo 6 con il metodo 2F, tutte le nozioni che questo conteneva gli sono indiscutibilmente passate. Pertanto non è difficile dimostrare che la sua cultura si sia accresciuta.

Infatti è così.

Ma il fallimento purtroppo non si constata alla fine dello studio del capitolo 6. Ma, per ipotesi, alla fine di un corso di studi, come, per esempio, nel periodo di preparazione di una prova di esame di maturità.

Se prendete uno qualunque dei ragazzi che vengono da un ciclo di 5 anni di scuole superiori, dove sono stati sottoposti ad interrogazioni, prove scritte, orari di entrata e di uscita, compiti a casa, obblighi di ogni tipo e, per concludere, lo stress dell’esame finale, questo vi dirà che si è dato un proposito irremovibile. Quando riuscirà a concludere quel percorso, con tutto quelle che sono state le materie di studio (autori letterari, teorie filosofiche, leggi fisiche, equazioni matematiche, storia dell’arte, scienza) non vorrà mai più avere nulla a che fare per il resto della sua vita. 
E gran parte delle volte, a quel proposito, i ragazzi tendono a rimanere molto fedeli.

La scuola avrà così generato un ennesimo ignorante. Ma non sarà un ignorante qualunque, bensì un ignorante grave. Poiché si tratterà di “ignoranza di ritorno”. 
Cercherò di spiegare meglio. 
Esiste, o meglio, esisteva un tempo quando la scuola non era un obbligo di legge, l’“ignoranza di origine”. Si poteva essere ignoranti per non aver mai incontrato la cultura. Ma nulla impediva che quest’incontro si potesse produrre, prima o poi, in maniera casuale. Che potesse cioè accadere di scoprire che avere una cultura in un qualche settore della vita sia una cosa bellissima e che si volesse far proprio una qualche forma di sapere.

Un “ignorante di ritorno”, invece, è uno che passerà la vita a cercare di dimenticare tutti i traumi che ha associato alla cultura, fatti dall’umiliazione del voto e dell’obbligo di disciplina, dall’imposizione di un metodo o dello studio di contenuti specifici, e, non appena nella sua vita futura incorrerà in qualcosa che riconoscerà come ‘culturale’, si volterà nauseato dall’altra parte e cambierà immediatamente strada.

L’incontro con la cultura sarà represso per sempre da questo meccanismo di rigetto.

Il metodo giusto.

Ma allora esiste un metodo che consente la costruzione di un patrimonio di conoscenza che sia, o specifico, o di sana formazione della personalità?
Naturalmente sì. E la prima cosa che va detta in proposito è che non si tratta di un metodo. Non trattandosi di un metodo non c’è alcun algoritmo da adottare, né niente da sapere della sua applicazione.

Questo ‘non metodo’ si chiama “Passione”.

La passione non prevede fatica. Non è fatica, infatti, applicarsi in qualcosa per la quale si prova un vero e proprio sentimento d’amore. Semmai la fatica si sente quando occorre smettere per qualche motivo, o perché è ora di andare a mangiare, o perché altri maledetti impegni impediscono di proseguire.

La passione non prevede fallimento. Il fallimento, in presenza di passione, non è nemmeno lontanamente contemplato. Il problema del fallimento non si pone perché la passione porta dritti al successo. E non perché indirizza con sicurezza verso un obbiettivo finale. Il successo è, soprattutto, già insito nel percorso che si fa. Perché la passione stessa è l’arricchimento più grande. Questo fa sì che l’obbiettivo non abbia più alcun senso. Se ce n’era uno, spesso viene oltrepassato per avviarsi verso obbiettivi superiori neppure mai consapevolmente contemplati prima.

La passione è straordinariamente contagiosa. Passa da individuo a individuo ogni qualvolta trova un terreno fertile per radicarsi. Il mezzo che la veicola è l’entusiasmo.

La passione non si descrive a parole. Può capirla solo chi ce l’ha già. È in tutto e per tutto una forma d’amore ed una manifestazione dei più alti sentimenti umani. È vita nella sua essenza più pura. È energia. Averla è uno dei doni più belli che si possono ricevere.

La passione non trova spazio nella scuola. È ricacciata indietro da quasi ogni sua struttura. Dalla gerarchia interna, dall’organizzazione in tempi e spazi prestabiliti. Dai programmi ministeriali. Dal registro di classe. Dal voto. Dal giudizio. Dagli scrutini. Dalla disposizione dei banchi e della cattedra che stabiliscono già, stupidamente, chi è che deve insegnare e chi invece deve imparare. Dai testi di studio e dalla loro organizzazione dei contenuti. Dalla struttura istituzionale. Dalla formazione degli insegnanti. Dalla burocrazia. Dalla sterile pianificazione dei progetti didattici.

Ma, più di tutto, dal metodo delle 2F.


                 Alberto Melari


martedì 9 aprile 2019


Di ogni cosa c'è una grande abbondanza. 

Se non la vediamo dipende solo da noi.


Attratto dalla curiosità del bambino, vedo mio figlio di 4 anni nel prato soffermarsi sui fili di una ragnatela tesa fra i gli steli dell’erba. Rinviene pure il ragno e lo osserva. Vorrebbe giocarci. Ha fatto una scoperta. Una di quelle belle. Che ti fanno stupire della bellezza delle cose del mondo.

Certo … è stato un caso. Altrimenti bisognava guardarci bene. Andare a cercarselo. Esplorare l’illimitatamente piccolo e l’infinitamente vario del prato per trovare un ragno come quello.
Eppure mi ricordo di un giorno in cui successe una cosa. Niente di particolare, per carità! Ma quanto basta per rifletterci su.

Questa volta ero da solo. Su un prato come quello. È salita la nebbia ed ha offuscato la vista. Poi, dopo qualche ora, è di nuovo scesa lasciando tutto intorno gocce di rugiada. Per quel curioso fenomeno di umidità, le ragnatele sul prato, sugli alberi, fra i cespugli, si sono riempite di minuscole gocce d’acqua che si sono adagiate sopra. E le tele sono diventate immediatamente chiare, biancastre. Insomma ben visibili.

La prima cosa che mi è balzata all’occhio è che erano decine. Poi, ho disteso la vista oltre il poco spazio che avevo intorno e sono stato costretto a correggermi. Erano centinaia. Forse migliaia. Non sapresti neppure più dire quante.

Quell’osservazione poteva finire lì. Ma sarebbe stato davvero un peccato. Perché in quel curioso fenomeno si palesava qualcosa di molto più grande che la costatazione che in ambiente naturale ci sono molti più ragni di quanto si immagini.

A rivelarsi è stata piuttosto una caratteristica dell’intero universo. Ovvero che di ogni elemento che lo compone si potrebbe rilevare un’abbondanza senza limiti e una presenza che dà come impressione quella di tendere all’infinito. Insomma, ogni cosa, nell’universo, è enormemente rappresentata. Ma allo stesso tempo questa sovrabbondanza di elementi tende a sfuggire sia ai nostri sensi, sia al nostro intelletto. In altre parole, il più delle volte non la percepiamo.

Non è un’osservazione filosofica destinata a rimanere nel mondo delle teorie. Piuttosto è uno degli elementi più importanti che occorre aver interiorizzato per comprendere appieno il senso della propria vita e, in questo modo, cavarsela nel quotidiano.

Quello che dovremmo dedurne, è che intorno a noi c’è ricchezza. Tanta ricchezza. Che il mondo in cui ci muoviamo è enormemente generoso. La regola dei ragni andrebbe dunque estesa ad ogni cosa. Alle società. Ai mercati. Alle opportunità riservate a ciascuno di noi. Alle possibilità di incontrare le persone giuste. Alle idee e alla loro possibilità di realizzazione. Alle soluzioni di un problema.

Tutto è enormemente rappresentato. È una consapevolezza che però va maturata esattamente come si matura una fede. Perché di norma, questa abbondanza non si rivela. L’unico errore da non compiere è quello di non aspettare di scoprirlo in quell’unico momento in cui la nebbia si dirada.

                                                                       Alberto Melari

giovedì 4 aprile 2019

Gino Strada è un pacifista?

Le ideologie mostrano sempre una realtà falsata. E creano conflitti.


Scorrendo Facebook, qualche tempo fa, inciampai in un post di Gino Strada. Con quel post, il medico di Emergency, invitava a prendere una posizione, a favore o contro il governo.
Dopo averlo riletto un po’ di volte mi sono posto la domanda. Questo signore è veramente un pacifista? Una persona che invita a dividersi, che crea due fronti e chiede di scegliere da che parte stare, sta veramente adoperandosi per la pace?
C’è un punto che la grande maggioranza delle persone faranno una fatica enorme a capire, ma vale comunque la pena di essere spiegato. Ogni volta che si crea un dualismo, ovvero una separazione di un aspetto della realtà in due forme antitetiche, e si sceglie di appartenere ad una delle due parti, inevitabilmente contrapponendosi all’altra, si sta falsando quella realtà per quello che realmente è, e questo è di fondo la scaturigine di una grande quantità di problemi che affliggono, in maniera più o meno rilevante, la realtà stessa, e in primo luogo la realtà di chi ha scelto di fare propria quella separazione.

I dualismi sono categorie della mente, e la mente è il luogo dove nascono e sopravvivono. Nella reale natura delle cose queste separazioni non esistono. Fascismo e comunismo, liberalismo e socialismo, scienza e religione, persino maschilismo e femminismo, ovvero l’aver ideologizzato e contrapposto l’essere maschio o femmina, cioè le due metà che hanno come finalità il completarsi in un unione, sono di fatto tutte creazioni mentali che nella natura reale delle cose non hanno né spazio né ragione alcuna.

Il punto più delicato della questione è nel fatto che, abbracciando ogni volta una delle ideologie, credendola giusta e fonte suprema di bene, si immagina di darle forza schierandosi e quindi, in qualche modo, di adoperarsi alla sua attuazione. Naturalmente il compito primario consisterà nel combattere il suo opposto, che rappresenta l’ostacolo principale, se non unico, alla sua realizzazione.

Questa in realtà non avverrà mai. Perché le due forze si sorreggono, per la propria sopravvivenza, meschinamente a vicenda. Un aumento di visibilità da parte di uno schieramento, muoverebbe inevitabilmente la parte dormiente della fazione opposta portandola a mobilitarsi per fronteggiare la minaccia percepita da quell’aumento.

Questo meccanismo assicura che nessuna delle due ideologie potrà mai trovare la sua totale realizzazione, perché l’impegno maggiore sarà sempre speso nell'inutile tentativo di annientamento dell’altra. Il risultato naturalmente è una guerra perenne, che è quanto di più lontano dal mondo perfetto che le premesse garantivano al momento dell’affiliazione.

Ma c’è di più. Facciamo un esempio. Essendo fascismo e comunismo semplicemente idee, queste sopravvivono solo nella mente, e questo lo abbiamo già detto. Ma anche chi ha scelto di fare propria una delle due, coltivando l’altra come “Anti”, di fatto la nutre e le fornisce energia. Pertanto, se sei un anti-fascista, ad esempio, e ti adoperi per l’estinzione dell’idea fascista, in realtà, con il tuo pensiero e con la tua conseguente azione, non fai che alimentare quell'idea e, in qualche modo, la tieni viva, indirettamente la sostieni, la arricchisci e contribuisci al suo sviluppo.

Un vero antifascista pertanto, non può che essere colui che il fascismo non l’ha mai conosciuto, o che lo pensa come una cosa passata, appartenente alla storia e che sente che non lo riguarda. Che non lo considera un problema e quindi non ci pone in alcun modo il proprio pensiero.

Ecco quindi che Gino Strada non è da considerare un pacifista. Perché anche l’invito al rigetto nei confronti di chi fa le guerre, verso chi discrimina, verso una politica piuttosto che un’altra è, prima di ogni altra cosa un incentivo all'odio, e quindi un predisporre una guerra contro qualcosa o qualcuno. 
Così come la mafia non attecchisce in una società dove non c’è mentalità mafiosa, chi vive realmente in uno stato di pace non prova né rancori né rabbia contro nessuno ed è un vero portatore di pace che non dà spazio dentro di sé, e quindi neppure fuori, ad alcuna forma di conflitto.

Pertanto se c’è un luogo da cui fascismi, totalitarismi, schiavitù, e guerre devono essere eliminati, quel luogo non è un luogo fisico, ma piuttosto la mente umana. Ed iniziare dalla propria non è solo l’unica cosa che è di fatto nelle possibilità di ciascuno, ma anche un’opera sufficientemente grandiosa da meritare la liberazione totale da tutte quelle afflizioni che, come si potrà sperimentare, non riguarderanno più chi avrà il coraggio di non schierarsi ideologicamente e guardare la realtà per quello che realmente è.

                                                                                                         Alberto Melari